LA STORIA DELLA BATUSA

Ecco il nostro regalo di Natale per i lettori: abbiamo chiesto a Nereo di scrivere la storia della Batusa, senza dargli alcuna indicazione.

batusa natale

TESTO: NEREO TRABACCHI; FOTO: ARCHIVIO BATUSA

Piacenza, giardini Margherita, 24 dicembre, 6,23 del mattino. Un uomo dall’aspetto decisamente pesante si trascina con passo stanco lungo i vialetti ghiaiosi dei giardinetti. In una mano stringe una bottiglia, nell’altra un grande borsa nera. Profonde occhiaie solcano il suo viso e piccole lacrime da freddo tracciano i solchi delle profonde rughe scavate all’unisono da tempo e fatica. Non mangia da ore e beve in continuazione; è l’unico modo per finire il lavoro che ha cominciato. La città inizia a svegliarsi molto pigramente, per vivere quel giorno dell’anno dove la maggior parte delle persone fa uno sforzo quasi inguinale per simulare affetti, serenità e gentilezza. A chi riesce meglio, ovviamente, è perché lo fa tutto l’anno; è più raro del natalizio, ma il virus del finto perbenismo è anche ferragostano. L’uomo ingurgita un generoso sorso di vino, e decide di concedersi qualche minuto di riposo su una panchina, il cui gelido acciaio accelererà il suo già avanzato processo emorroidale. Si lascia cadere pesantemente, e si guarda attorno: il deserto brinato. Poi si osserva le mani rovinate, si tocca la barba infeltrita e getta uno sguardo nella borsa nera. Quando vede che sono rimasti solo pochi oggetti, tira il primo vero sospiro di sollievo, perché il suo lavoro è a buon punto e tra poco potrà riposarsi e sedersi in qualche trattoria per mangiare e continuare a bere. Ficca la mano in fondo la borsa, afferra un pacchetto nero con le dita intirizzite, poi si alza dalla panchina e in pochi passi arriva davanti alla statua della Batusa; si china e lo deposita ai suoi piedi.
“Che roba l’è?”.
Sentendo quelle parole, l’uomo si blocca, quasi fosse diventato lui una statua, poi trova la forza di guardarsi intorno, ma ovviamente non vede nessuno. Alza la bottiglia all’altezza degli occhi e verifica che ce n’è ancora una buona metà: “No, non può essere questo, non ancora”, pensa.
“Hey tu, barbüzza, mi rispondi? Fämm un po’ al piaser!”.
Ora non ha più alcun dubbio da dove provenga la voce. Trascina i luridi scarponi verso la statua e allungando un dito, prova a toccarla. “Hey, tieni giù quelle manacce che a fä il cuion gh’è seimpar teimp”.
“Ma, ma, lei parla signorina?”.
“Ohsignoresantissimo… Certo che parlo, sono la Batusa”.
“La Büsona?”.
“Macchè Büsona? Ma come ti permetti lucc d’un lucc! La Batusa, la popolana, la sfacciata. Quella che taca bottone con tutti. Come fai a non conoscermi? Ora ho anche un blog tutto mio. Gestito da perdigiorno, ma il nome è mio”.
Prima di rispondere l’uomo si scalda la gola con il nettare degli Dei e si pulisce la bocca nella giacca rossa. “Sì, forse ho sentito qualcosa. Ma non credevo lei esistesse veramente, e poi pensavo fosse la classica babbiona piacentina, invece qui l’hanno fatta giovane e quasi snella”.
“Certo che esisto veramente, poi detto da te suona strano… Sei mica il Babbo Natale Comunale?”.
“Sì. Sono stato declassato quest’anno per colpa della crisi… Fino a l’anno scorso ero provinciale, ora copro solo un distretto comunale. Ho fatto domanda per il centro storico, ma lì devi andare per conoscenze e sono rimasto fottuto”.
“Si fatica a sbancare il lunario?” chiede la Batusa.
“Vedi, noi che non esistiamo facciamo comodo in queste occasioni, e in altre in cui c’è del lavoro di fatica da sbrigare. Ad esempio, l’anno scorso mi hanno riciclato per creare disordine tra i corridori della Piacenza Marathon e permettere così a Trespidi un buon piazzamento”.
“Capisco…”.
“E lei, bella signora, resta sempre qui?”.
“Alura t’è propi lucc cmé un cuccù. Non vedi che sono una statua? Dove vuoi che vada?”.
“Già, dove vuole andare? Dove possono andare persone come noi?”.
La Batusa sposta leggermente gli occhi e osserva bene il suo Babbo Natale territoriale. “Non hai tutti i torti. In fondo noi incarniamo esattamente quello che le persone sono, ma non si accorgono di essere: io la loro reale semplicità, tu la fantasia che deve portare all’evasione dall’amara realtà e finto perbenismo. Una volta l’anno per lo meno. Ma non lasciamoci andare alle tristezze. Senti, mi allunghi un goccio di quella roba lì? Tanto per scaldarmi”.
L’uomo prima si guarda attorno, poi posa il collo della bottiglia alla bocca della sua nuova amica.
“Iabò che purcaria cla broda ché!”.
“Oh, mi scusi Duchessa se non le ho portato uno champagnino, ma a quest’ora le enoteche sono tutte chiuse…”.
“Vabbè, vabbè. Senti, chi mi manda quel pacchetto che mi hai portato?”.
Babbo Natale si china e legge il bigliettino: “Da parte dei tuoi lettori… Grazie”.
“Me lo apri? Io ho le braccia intorpidite dal gelo e non posso muoverle”.
Una bella sciarpa di lana esce dal pacco. “Oh che cari. Me la leghi al collo?”.
“Ecco fatto. Ora mi scusi signorina, ma devo andare, ho ancora delle consegna da fare, e dopo un buon pranzo devo smaterializzarmi, come tutti gli anni, dato che fondamentalmente io non esisto”.
“Va bene… Se non ti passano di grado ci vediamo il prossimo anno. Io sarò sempre qui, a raccontare le storie di Piacenza, con una voce amara, ironica, ma sincera. Addio”.
L’uomo fa un cenno con la mano e torna a sedersi sulla panchina. Finisce la bottiglia, conta i regali che gli sono rimasti nel sacco e improvvisamente sente un’enorme stanchezza cadergli sulla spalle. Si corica un istante e subito si addormenta. Dopo pochi minuti un improvviso scrollone lo sveglia di soprassalto.
“Tutto bene signore?”. Due ragazzini lo fissano con occhi vivi.
“Oh, sì ragazzi, grazie. Stavo parlando con la statua e devo essermi addormentato…”.
I due prima sghignazzano e poi corrono via. Lui si solleva a fatica, carica in spalla la borsa e si incammina lungo il vialetto per le ultime consegne. Appena prima di uscire dal cancello dei giardinetti, si volta verso la Batusa, immobile, ferma, senza sciarpa, e l’unico pensiero nel più falso periodo dell’anno che gli passa per la mente è quanto la preoccupazione umana per ciò che gli altri pensano di noi scompare una volta che capiamo quanto di rado pensiamo a noi.

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