OGGI, DOMANI, BARBIERI

Dal barbiere si va per tutto. Tranne che per barba e capelli. Spettegolare, spifferare, origliare: ecco perché non vediamo l’ora che riaprano. 

I capelli e la barba lunga sono un’ottima scusa per andare dal barbiere. Ma tutti sappiamo che il vero motivo per cui ci sediamo in poltrona è spettegolare sui conoscenti comuni o sui personaggi pubblici locali. E’ questo che ci manca ora che le botteghe sono chiuse. Barba e capelli vengono dopo.

Fateci caso: almeno il 70% degli uomini che va dal barbiere è calvo. Adesso facciamo i finti disperati perché i capelli non stanno a posto, ma in realtà non vediamo l’ora di tornare a sputtanare il prossimo. «Mi hanno detto che il tizio che abita qui dietro ha fatto un assembramento». «Ma non ha mica congiunti». «Ah ma ce l’ho detto io».

Abbiamo un debole per i barbieri. E per il rito che si ripete a ogni seduta. Precisazione: noi parliamo dei veri barbieri, quelli tradizionali, quelli con forbici e pettine e almeno 70 anni di professione alle spalle, quelli che dal dopoguerra non hanno mai cambiato le poltrone e le salviette. Gli acconciatori i fighetti che ungono la barba da hipster con oli essenziali e balsami al timo e che ingellano creste alla Balotelli non fanno per noi.

Un vero barbiere, prima di ogni altra cosa, deve avere uno scomparto ben rifornito di riviste e rotocalchi che pensavi fossero estinti da secoli. Mentre li sfogli devi leggere titoli come «Albano sposa Romina» e «la ventenne Maria De Filippi farà carriera in tv». Ti immergi nella lettura mentre aspetti il tuo turno. Intanto origli. Non si sa mai che il cliente che è sotto abbia qualche buona informazione da rivendere al bar.

Nell’aria c’è profumo di barbiere. E’ un’essenza di schiuma da barba e dopobarba, di sapone e di creme. Lo zac zac zac delle forbici batte il trascorrere del tempo. Ti volti e accanto a te c’è il cliente onorario. Porta un vecchio basco sulla testa, un cappotto rattoppato e i calzini bordeaux abbassati sulle caviglie sopra i mocassini. Non sa neanche perché è lì. Però c’è. Non manca un appuntamento da anni e quello è il suo posto. Sfoglia la pagina dei morti e pretende rispetto.

Tocca a te. Il barbiere spazza i capelli in terra (qui un’inchiesta della Batusa sul destino dei capelli tagliati dal barbiere), scrolla l’asciugamano e finge di sostituirlo con uno pulito. Gli anticorpi del coronavirus sono lì. Su quell’unica salvietta usata per tutti. Tanto casino per trovare il vaccino e poi ce l’abbiamo legato dietro al collo.

Il barbiere armeggia sulla parte superiore del tuo corpo e tu aspetti la fatidica domanda. «Cosa facciamo?». Ah. Poesia. Indichi il taglio e poi entri in una sorta di trance. Chiudi gli occhi per evitare che i capelli infilzino le pupille e ti rilassi. La radio passa un vecchio pezzo di Mina. Il rasoio a mano falcia la barba e produce un suono metallico che ti manda in estasi. Aspetti solo la seconda domanda. «Novità?». Parti e non finisci più. In mezz’ora racconti i cazzi di tutta Piacenza infarcendo il discorso con beceri luoghi comuni sulla classe politica attuale e sulle previsioni del tempo.

Vorresti che non finisse mai. Il barbiere è l’unica persona che si prende cura di te. Per i piacentini i barbieri sono talmente importanti che il nostro sindaco si chiama così. Però finisce. «Ecco qua». Ti guardi allo specchio e sembri un uomo nuovo. Bello, in ordine, profumato dal profumo del barbiere. Ti tocchi una guancia. Ti tocchi l’altra. Sei soddisfatto. Il barbiere soffia via la polvere dal blocchetto delle fatture e ti chiede il solito. Il prezzo è lo stesso di quando eri bambino. Non è neanche stato convertito in euro. Quando varchi la soglia della bottega per uscire hai già nostalgia, ma sai che presto arriverà il momento di andare dal barbiere. 

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