FERRHOTEL

L’ostello accanto alla stazione ospita rifugiati come Deen Islam, esponente del Partito Nazionale del Bangladesh accusato di omicidio nel suo Paese. “Non ho ammazzato nessuno” dice mentre ci mostra una vecchia copia del Muslim Times. Ecco la terza puntata di “Processo breve”, la nostra piccola inchiesta sulla galera a Piacenza.

TESTO: FILIPPO MERLI; FOTO: IDEM

Deen Islam è sceso dal treno con una vecchia copia del Muslim Times in valigia. Scappava dalla Libia e prima ancora dal Bangladesh, dove Deen era un esponente del Partito Nazionale ricercato per omidicio. “Non ho ammazzato nessuno” dice mentre apre il Muslim Times con la sua fotografia in prima pagina. “Guarda, guarda qui”. Oggi Deen dà una mano a Carlo Loranzi, un ex giocatore di rugby che gestisce il Ferrhotel della stazione, un edificio color mattone che si affaccia sul parcheggio riservato ai pendolari e costeggia il primo binario. Dalle finestre delle camere si vedono la centrale elettrica “Piacenza Levante” e bottiglie di birra vuote disseminate su un binario morto. L’albergo è uno degli otto luoghi predisposti per accogliere i rifugiati del Nord Africa dopo la dichiarazione dello stato di emergenza dello scorso anno dopo lo scoppio della guerra in Libia. Tra questi alberghi c’è anche “Le Tre Corone” di Calendasco, l’ostello dove ieri quattro profughi sono stati denunciati con l’accusa di minacce, danneggiamenti e sequestro di persona. Protestavano perché il titolare ha detto loro di non poter più accogliere rifugiati. Carlo Loranzi arriva al volante di un vecchio furgone e ci invita a entrare al Ferrhotel. I vetri della porta d’ingresso sono rotti. “C’è qualcuno che deve avercela con noi per quello che facciamo” dice Loranzi mentre gira la chiave del suo ufficio. Sulla sua scrivania ci sono decine di documenti, qualche timbro, un flacone di detergente per le mani e un tubetto di colla Pritt. “Quella del Ferrhotel è una lunga storia. Accomodati pure”.

MELODIE ARABE

Carlo inizia a frugare tra le carte. Vuole essere preciso. In corridoio si sente la melodia araba di un telefonino. “Nel 2011 – dice alla Batusa – il Governo Berlusconi ha dichiarato lo stato di emergenza relativo all’arrivo dai profughi dalla Libia. Si parlava di più di centomila immigrati, in realtà ne sono sbarcati 28mila, oltre a quelli che sono morti in mare durante la traversata. Ora, dalle ultime notizie che ci arrivano, pare che il Governo Monti abbia fissato il 31 dicembre 2012 come data della fine dello stato di emergenza. A parte il fatto che non si può stabilire con esattezza quando finisce un’emergenza, il provvedimento del Governo implica che dal primo gennaio 2013 dovranno essere gli enti locali e i servizi sociali a occuparsi di continuare l’accoglienza. Insomma, lo Stato non ci darà più un euro. Ovviamente gli enti locali, che hanno già subito tagli dal Governo, fanno sapere che non hanno soldi per portare avanti il programma. Di conseguenza le strutture come il Ferrhotel resteranno al verde e rischieranno di non poter più ospitare alcun rifugiato. Ecco, questa è una delle cause della protesta di Calendasco”. Il Ferrhotel era di proprietà delle Ferrovie dello Stato e ospitava macchinisti e controllori di passaggio a Piacenza. Ora l’edificio è di proprietà di un privato, che ne ha affidato la gestione a Loranzi. L’albergo ospita una settantina di profughi tra i 18 e i 25 anni provenienti da Costa d’Avorio, Gambia, Sierra Leone, Bangladesh, Tunisia, Burkina Fasu e Senegal, oltre a qualche iraniano che se ne è andato nei mesi scorsi. “Non ci sono mai stati problemi di ordine pubblico, solo qualche manifestazione di malumore per come il Governo aveva attuato il programma di accoglienza, senza pensare agli effetti psicologici che avrebbe potuto avere sui profughi”.

 TRENI E TROLLEY FASTIDIOSI

Gli ospiti del Ferrhotel percepiscono un voucher del valore di 2,50 euro al giorno spendibile al supermercato, oltre a vitto e alloggio – tre pasti al giorno da consumare nella sala mensa appositamente costruita al piano terra. I profughi entrano ed escono liberamente dalla porta sempre aperta. “L’orario di chiusura è fissato per mezzanotte” dice Loranzi. “Ma questo non è un carcere e io non sono un direttore: qui si può andare e venire liberamente”. Il Ferrhotel è costruito su tre piani ed è composto da novanta camere, ognuna dotata di bagno privato. In sottofondo c’è il fischio del treno e il rumore fastidioso dei trolley che passano sul selciato della stazione. La camera di Deen è in fondo al corridoio. Ci sono tre letti e indumenti sparsi in giro, oltre a uno zainetto e alle cuffie per l’Mp3. In bagno c’è una donna che si sta facendo la doccia. “Sono fuggito dal Bangladesh perché volevamo mettermi in galera per un omicidio che non ho commesso” racconta Deen alla Batusa. “Sono arrivato in Libia, ma c’era la guerra e sono stato costretto a scappare ancora, stavolta in Italia. Grazie a Dio e grazie a Carlo, che mi ha dato la possibilità di lavorare qui con lui, le cose adesso vanno bene”. I rifugiati come Deen devono rinnovare il permesso di soggiorno ogni mese e viaggiano soprattutto in treno. Deen apre le vecchie copie del Muslim Times e del Daily Morning Glory che tiene in una cartelletta insieme ad altri pezzi di giornale che parlano della sua storia. Ha 32 anni ed è il grande vecchio del Ferrhotel. Aiuta Loranzi in segreteria e all’occorrenza dà una ripulita alle stanze. E’ lui che ci accompagna all’uscita. “Per chi scrivi ragazzo?”. Per la Batusa. “E’ una specie di Muslim Times, giusto?”.

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