CHINA TOWN

Nel ristorante di via IV Novembre vendono birra Tsingtao. “Col wasabi è la morte sua” dicono i clienti. Il cinese è molto fico e fa moda, ma dopo il caso di Gianna Casella i piacentini sono scettici. “Sbagliato generalizzare, e poi noi non facciamo cozze crude” dice Ye, la proprietaria. Ecco la prima puntata della nostra piccola inchiesta sui cinesi a Piacenza.

TESTO: FILIPPO MERLI; FOTOGRAFIE: COSTANZA CAVANNA

Al ristorante China Town bevono birra Tsingtao. I cinesi – che arrivano sempre prima degli altri – sanno che le bottiglie da 33 sono inutili e vendono solo quelle da 66. La storia di questa chiara da 4,8 gradi è interessante. Nel 1898 la città di Tsingtao fu ceduta dalla Manciuria alla Germania. I coloni tedeschi, che dopo una dura giornata di colonizzazione non sapevano come sbronzarsi, risolsero il problema stabilendo un’industria di birra per uso e consumo personale. Quando i cinesi riconquistarono la città, nel 1922, scoprirono che la birra non era niente male e proseguirono nella produzione della Tsingtao, che divenne presto la lager più popolare e venduta della Cina. Ye Jing Hong, proprietaria del China Town, il ristorante etnico di via IV Novembre, apre il frigo e ci mostra la bottiglia. E’ verde, con una pagoda stilizzata sull’etichetta azzurra. Non chiediamo di assaggiarla perché siamo gente seria e tra una bevuta e l’altra non beviamo mai. I piacentini – che arrivano sempre dopo gli altri – hanno scoperto la cucina orientale qualche anno fa e adesso non riescono più a farne a meno. Il cinese è molto fico e fa moda, ma ha subito una pesante ricaduta dopo la storia delle cozze di Gianna Casella. “In questi giorni – dice Jing Hong alla Batusang – si è vista pochissima gente. I piacentini, dopo quello che è successo, temono che la cucina etnica sia dannosa. Beh, si sbagliano di grosso. Le cause della morte della Casella non sono ancora state accertate, ma si è finito per generalizzare. Ci siamo arrabbiati molto, per questo noi proprietari di ristoranti etnici siamo andati a Libeltà per mettere le cose in chiaro: la nostra è una cucina sana, così come sono sani gli alimenti che serviamo”.

 WASABI E KAZUNOKO

Ye Jing Hong, originaria di un piccolo paese vicino a Shangai, è arrivata in Italia vent’anni fa e ha trovato lavoro come cameriera tra Torino e Milano. Nel 2001 ha aperto il China Town e, dopo un breve periodo di assestamento, sono arrivati i primi clienti. Il menu del ristorante comprende anche specialità giapponesi come sushi e sashimi. Le altre specialità si chiamano wasabi, kazunoko, tobiko e tekka-maki. All’interno, tra luci basse e odore di fritto, un giovane cuoco prepara pesce al bancone e una signora in abiti tipici dispone bacchette e posate sui tavoli girevoli. “Qui – prosegue Ye – è tutto a norma di legge. I cibi sono ben conservati e non serviamo nulla di crudo, neppure le cozze. Siamo stati tra i primi ad aprire un locale etnico e Piacenza e oggi, a distanza di più di dieci anni, siamo piuttosto affermati. I piacentini amano la cucina cinese – che al contrario di quella giapponese comprende solo cibi cotti – e speriamo che ciò che è successo nei giorni scorsi non pesi più di tanto sulla nostra attività e su quella degli altri ristoranti orientali”. Ye racconta che la cucina cinese importata in Italia è molto diversa rispetto a quella del suo Paese, che varia di città in città. “Ogni posto – spiega – ha metodi e ricette differenti, a seconda delle materie prime e delle tradizioni”. E’ domenica e sono le 18. Il ristorante apre tra mezz’ora e Ye ha già messo al lavoro il suo staff. “Per fortuna abbiamo qualche prenotazione, segno che i clienti si fidano di noi e della nostra cucina. Chi viene qui spesso – dice ancora Ye – sa che il nostro mangiare è di assoluta qualità”. Al China Town, alla fine del pranzo o della cena, servono grappa di rose e altri liquori tipici, ma la bevanda alcolica preferita dai clienti continua a essere la birra Tsingtao. “Ai piacentini piace parecchio, ne serviamo molta. Bene. Adesso devo mettermi al lavoro anch’io”. Grazie Ye. Yo.

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