NEREO

Nereo si è sacrificato per noi: è andato sulla fiera di San Trottola, s’è avvicinato al camioncino rosso e ha ordinato un panino con salsiccia, peperoni, cipolla e qualcos’altro (al primo morso la maionese è colata sulla testa di sua figlia, al secondo ha cominciato a pentirsi). 

nereo fiera

TESTO: NEREO TRABACCHI; FOTO: ARCHIVIO TRABACCHI

E poi non si dica che non voglio bene alla Batusa, anche se in parte, lo ammetto (è giusto farlo), che il mangiare un panino allucinante su una fiera era cosa che desideravo da tempo. Forse perché, insieme ad altri gravi divieti e traumi infantili, come “se dopo aver mangiato non aspetti cinque ore per fare il bagno in mare sicuramente muori”, il cibo da fiera (da non confondersi con il lucc da fera), mi è sempre stato presentato come altamente nocivo, probabilmente tossico, certamente malsano. E perbacco (da non confondersi con “lo faccio per Bacco”), avevano ragione. Ora sto bene, davvero, sto bene, ed era giusto provare per capire, ma è stata dura. Imbocco la fiera e dopo essermi fatto largo tra odori di ascelle acide, raggiungo l’unico banco di mio interesse, ovvero quello dove tutti gli anni compro le 24 paia di calze in filo di scozia blu. Qui, forse complice la tensione per la prova a venire, ho un giramento di testa che cerco di nascondere sedendomi su una panchina: subito mi si fanno sotto dodici badanti con mollettone di plastica tra i capelli, sventolandomi loro biglietti da visita e referenze. Sono a caccia di contratti e osservandomi in giro, sono nel posto giusto. Una sostiene di avermi conosciuto a casa della Contessa Eunice Sesterzi Felicini Rambaudi Minelli Etichetta Oro, e anche lì, avermi prestato soccorso dopo una difficile serata a base di frutti di mare e tè al mughetto. Ripresomi, mi avvio lungo il Facsal e poco dopo lo vedo: il camion rosso. Costruito e progettato per nobili scopi, svetta sulla collinetta erbosa con la stessa imponenza di un ristorante stellato. Uno staff che fa un baffo a quello di Marchesi in numero e qualità, si muove vorticosamente dietro il bancone ricco di ogni bendidio, pezzando l’ascella delle magliette rosse come la carrozzeria, all’unisono. Una serie di animali morti e distesi sul fianchetto è pronta al sacrificio… Faccio lo scontrino per il panino più costoso in assoluto per avere così la possibilità di imbottirlo con quello che voglio, scegliendo da una cozzaglia indescrivibile di ingredienti, adagiati su una piastra unta e rovente, sempre idratata da gocce di sudore grasso e fresco, piovute a turno dalle fronti degli adepti. Opto per la salamella, perché mi sembra più di controtendenza rispetto alla porchetta, e poi indicando schifosamente con il dito dico: “Mi aggiunga, quello, quello e quello…”. Il primo “quello” sono peperoni, il secondo cipolle fritte, il terzo non lo so ancora, ma continuando a digerire il suo sapore per le prossime 24 ore conto di scoprirlo. Trovo un posto appartato, stringo una birra gelata come la coperta di Linus, e addento il mio primo boccone. “Cazzo, è buonissimo…” riesco a dire mentre la lingua si contorce per la temperatura e un filotto di maionese, di cui non mi ero accorto, cola sulla testa di mia figlia che tengo in braccio nel caso di un ultimo veloce saluto. Il secondo morso ancora di più, al terzo rasento una strana forma di felicità. Poi, come dopo il picco felice di una ciocca, inizia la discesa triste; così al quarto morso mi pento, al quinto mi rattristisco capendo che mi sono rovinato la cena, al sesto e ultimo mi scende una lacrima pensando “se mia mamma lo sapesse…”. Al prossimo boccone!

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