I padri al tempo del coronavirus: tra torte che prendono vita di notte, occhi truccati dalle figlie e soprattutto nuove favole da inventare.
TESTO: NEREO TRABACCHI FOTO: INTERNET
I papà ai tempi del Covid sono sotto una pressione bestiale. Casini sul lavoro, genitori anziani da gestire, ma soprattutto figli cui far passare il tempo.
Dopo aver fatto fare loro 456 biscotti a forma di macchie di Rochard, 144 crostate compresa quella alla banana che nella notte ha preso vita e soprattutto dopo riletto tutte le favole possibili e immaginabili con il sottotitolo «scritta prima dell’emergenza Covid», hanno esaurito ogni possibile idea.
I padri di figlie femmine vanno a fare la spesa con gli occhi truccati e le dita dei piedi smaltati, ma non mollano, perché sanno che il giorno dopo la banca li chiamerà e risponderanno al direttore «andrà tutto bene». Così, in questi giorni, bisogna inventarsi una favola nuova per evitare di essere depilati in malo modo sull’inguine o avere i peli delle ascelle tirati fin sulla testa per coprire le calvizie.
«Papà…» (centoquarantesima volta dalle sei del mattino…).
«Dimmi amore…».
«Mi racconti una favola?».
«Ma le abbiamo già lette tutte…».
«Inventane una».
Così il papà, piacentino imbruttito, spara l’ultima cartuccia di energia, butta giù un gollone di Ortrugo e si trasforma nel Gianni Rodari della Bassa.
Dopo una giornata di duro lavoro, i sette nani trovano una bellissima e indifesa donna addormentata fuori dalla loro miniera… «E questa chi cazzo è?», domandò Dotto ai suoi fratelli quando vide quella donna a terra. «Ma vedi ‘sta sfigata. Si è addormentata proprio davanti all’ingresso della nostra miniera di diamanti. Sarà mica una spia dei fratelli Damiani?», reagì subito Eolo.
«Ohhh.. Sì, sì, sì. Portiamocela a casa e lecchiamola tutta», propose Cucciolo.
«Ma che dici. Non vedi che è piena di terra. E poi se è svenuta può aver mangiato qualcosa nel bosco e ci intossichiamo anche noi, o magari ha il coronavirus. Ma vedi tu che razza di rogna. Lasciamola qui e andiamocene. Qualcuno la troverà e la metterà a lavorare in strada o a ballare su un cubo», asserì Eolo.
«Me la tengo io nel letto per addormentarmi…», tentò Pisolo. «Ma smettila. Non sai le malattie che puoi prendere da una così? Ci sono tantissime infezioni in giro in questo periodo e sai benissimo come noi nani non possiamo correre il rischio di contrarre la trichomonas vaginalis; vorrebbe dire essere risucchiati», si inviperì Dotto.
«Guardate, guardate, si è mossa…». L’immigrata clandestina si svegliò e si mise a fissare quei piccoli esseri. «Oh cielo, l’ultimo mojito mi ha davvero spaccata in due. Come al solito non ricordo una mazza. Come sono arrivata qui? Avete un Oki?».
«Come ti chiami?», chiese Dotto.
«Ma cosa te ne frega di come mi chiamo? Voi piuttosto. Chi siete? Ma quanti siete? Oh cielo, che voglia di pisciare».
«Senti ciccia, questa è la nostra miniera e te ne devi andare. Non è che puoi stare qui a rompere. E poi ti consigliamo di sparire prima che arrivi nostro fratello. Quello che nessuno conosce veramente».
«In che senso nessuno conosce?», domandò ora davvero stupita la donna mentre si alzava controllando di non essersi pisciata addosso.
«Tutti credono che noi siamo sette fratelli. Ma c’è l’ottavo, quello per te più pericoloso se dovesse trovarti qui». «E come si chiama l’ottavo nano?». «Trombolo».