IL NOSTALGICO DI AN

Memorie di un nostalgico di An tra banchetti artigianali, comizi di piazza e la fiamma che non si spegneva. Fino alla fine di Fini. 

TESTO: GIORGIO RANTEMILA FOTO: INTERNET

Quando c’era Lui era tutta un’altra storia. Quello sì che era un leader, che sapeva tenere testa a Massimo D’Alema e a Enrico Berlinguer. E poi? E poi si è bevuto il cervello. Le donne, sai, che cosa ti fanno fare..

Noi ex di An siamo così: un po’ nostalgici e un po’ malinconici. E a dieci anni esatti da quel «che fai, mi cacci?», ricordiamo i vecchi tempi, quando Gianfranco Fini non aveva abdicato Alleanza nazionale e la sua carriera politica in nome di qualche interesse più prosaico.

Mi ricordo quei tempi, quegli degli esordi, nel lontano 1995. Anime di una destra da sempre frastagliata in mille correnti che si univano in un nuovo contenitore, An, con un simbolo bello per molti solo perché portava dentro quella fiamma che non poteva e voleva spegnersi. E da lì una crescita costante, le grandi manifestazioni di piazza, i comizi traboccanti di gente come solo Silvio Berlusconi all’apice sapeva fare, gli anni di governo, di quella classe di politici di destra che entrava per la prima volta nelle stanze del potere.

«Potete rivoltarci come un calzino, ma dalle nostre tasche non uscirà mai un soldo rubato agli italiani». «Siamo la destra: onesta, determinata, nazionalista e patriottica». «Se prima eravamo in pochi a chiamare patria l’Italia, adesso siamo la maggioranza», ripetevamo orgogliosamente mentre sfilavamo a Roma e nelle altre città italiane contro il governo D’Alema non votato dal popolo o contro Romano Prodi.

Non permettevamo di sentirci chiamare compagni nemmeno nella nostra squadretta di calcetto. Amici, invece, era troppo democristiano. Azzardavamo a chiamarci camerati, ma solo in separata sede. I più giovani si salutavano stringendosi il braccio e non la mano, simboleggiando un legame più forte tra di noi, un’empatia e la sensazione vivere una storia comune in nome della nostra Italia.

E Gianfranco la sublimava, sapeva premiarci con le sue parole, ma anche redarguirci e persino punirci, come quelle raccolte di firme per una proposta di legge raccolte sotto il sole di agosto o nel clima delle feste natalizie. Ma noi c’eravamo, sempre, con i nostri banchetti più o meno artigianali, le nostre bandiere bianche e blu, con il nostro tricolore e la fiamma che non si spegneva.

E poi? E poi quella fiamma è stata calpestata, una e più volte da chi ha sempre detto di custodirla. Lui, Gianfranco, quello dell’ «va bene il partito del predellino», e Pdl sia, da sera a mattina. Quello del patto dell’elefantino con Mario Segni, quello del meglio presidente della Camera che in prima linea in un ministero, quello del «che fai, mi cacci?», di Fli e delle case a Montecarlo.

Una grande storia finita, ma solo una parentesi nell’immortale storia di una destra che sa da dove viene e sa dove deve andare. Solo con altri modi, altri simboli, altre figure di riferimento, ma una sola convinzione: «Il peggiore dei nostri sarà sempre meglio del migliore dei loro».

Qui il nostalgico leghista e il nostalgico democratico.

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