IL SANTO PADRE

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TESTO: NEREO TRABACCHI; FOTO: ARCHIVIO TRABACCHI

E poi c’è la società esterna. Non tutta l’esperienza dei primi quaranta giorni di vita di una figlia si riduce tra le mura domestiche, allattamenti e pediatra. Ci sono anche le rogne da strada. Dura vita di strada. Sabato pomeriggio, complice una bella giornata, impongo alla madre di mia figlia di prendersi qualche ora di relax tutte per lei, e decido di uscire con la baby per una passeggiata. Da regolamento la vestizione tocca a chi la porta fuori. Quindi, le metto una cuffietta stile Amish regalo di una zia ricca, e la insacco come in una pancetta all’interno di un piumino pupazzato modello omino Michelin. La osservo e mi rendo conto di quanto somigli alla miniatura di un astronauta russo degli anni ’50. Mentre la vesto preferirei che piangesse disperatamente invece di avere quel sorrisetto stampato che dice “…zzo fai?” . Concludo l’opera inserendola in un sacco di lana, e dopo averla adagiata nella carrozzina super tecnologica che ogni mese automaticamente si trasforma crescendo con la pupa, mi butto in strada.
Il principale problema di queste passeggiate è che se stai fuori due ore riesci a percorrere al massimo quattrocento metri perché tutti, ma proprio tutti, ti fermano. Ed ecco la prima. In via Calzolai da lontano adocchio la segretaria di un mio cliente, con la quale non ho nessuna confidenza, se non una leggera conoscenza per motivi di lavoro, che da oltre cinquanta metri ha già iniziato a sorridermi, agitando le mani come se dovesse abbracciare un parente strettissimo che credeva morto anni prima durante un uragano. Mi bacia con un disgustoso rossetto che ricorda il colore delle ciliegie mature.
“Ferma, ferma, ferma… Fammela vedere… Oh cielo che amore! No, no, non dirmelo, dal mento al naso è tutta il papà. Gli occhi sono della mamma…”.
Guardo la bambina nella carrozzina, che non solo dorme con occhi chiusissimi, ma la cuffietta Amish le copre parte della faccia…
“Mangia? Dorme? Va bene di corpo?”.
“Certo signora… E lei?”. A questa domanda la signorina “Silvani” non sa come reagire, poi opta per il più classico “finta di non aver sentito” e dopo altri insensati complimenti si congeda con un “salutami la mamma” che ovviamente da quasi due mesi non capisco se si riferiscono alla mia o a quella della bambina.
Proseguo.
Alle porte del Caffè Barino, mentre con il culo spingo la porta e con un passo alla moonwalker retro marciante cerco di entrare, alzo lo sguardo ed ecco un’altra brillantissima dentiera del gattone di Alice nel Paese delle Meraviglie, che con un dito ossuto indica l’interno della carrozzina e dice: “E’ l’erede?”.
“No”, vorrei rispondere io, “ho dentro delle lattine di birra che devo restituire al barista perché me le ha imprestate ieri sera…”.
Invece mi stampo un sorriso, che sembra più uno sforzo da water, e dico: “Sì, è lei…”.
“Bravo Enrico… E’ davvero bella” rantola l’arcavoro che già avevo incasellato come uno degli ultimissimi “conoscevo tuo nonno” rimasti in vita.
“Enrico? Mi chiamo Nereo…”.
“Certo, e l’altro tuo figlio sarà contento dell’arrivo di un fratellino…”.
“Questa è femmina ed è la prima…”.
“Certo. Salutami la mamma”.
Fortunatamente mi saluta lui un secondo prima di fingere una chiamata inesistente in arrivo sul cellulare vibrante, lasciandomi questa opzione per la prossima volta, che potrebbe anche essere dieci minuti dopo se mi dovesse rincontrare sotto il porticato del bar perché uscito da una porta differente.
A quel punto, per godermi in serenità l’ultimo pezzo di passeggiata, opto per un isolamento dal mondo, inserendo gli auricolari e sparando a tutto volume i Canti di Maldoror… Così, non sentendo e fingendo di non vedere, afferro la carrozzina e come in giocatore di hockey che affannato porta il disco in porta, affronto in uno slalom da campionissimo via XX Settembre evitando nell’ordine: cugina bilaterale di Novara di passaggio in città, fruttivendolo che si ricorda “quando ero alto così” uscito con un balzo dal negozio, un compagno di classe delle elementari che a dieci anni aveva i baffi ma oggi no, ma… ma questa vecchia che mi si para davanti, proprio non riesco a evitarla. Così mi tolgo le cuffie costretto a salutarla.
“Ciao mamma…”.
“Ciao. La bambina ha mangiato? Tu hai mangiato?”.
“No, ieri sera ci siamo dimenticati e oggi a pranzo abbiamo deciso di essere solidali con Pannella”.
Ficca la testa nella carrozzina come un cane da tartufo in una buca piemontese.
“E’ toppo coperta… E’ poco coperta… Suda? Da quanto sei in giro? Da che parte andate? Questa sera me la lasciate? Ha la magliettina sotto? L’ha fatta oggi?”.
“Sì… non so… no… 30 minuti… giù di là… no sta con noi… sì… tre volte…. Oh scusa mamma, mi suona il telefono, ci sentiamo dopo…”.
E rimetto gli auricolari ascoltando un piacevole: “Bello come la retrattilità degli artigli degli uccelli rapaci; o ancora, come l’incertezza dei movimenti muscolari nelle pieghe delle parti molli della regione cervicale posteriore…e soprattutto, come l’incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello…” dirigendomi con la mia piccola verso casa.

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2 Comments on "IL SANTO PADRE"

  1. Ahahaha muoioooo!!! Bravissimo!

  2. La prossima volta, filma tutto e gira un cortometraggio che allegato alle tue parole, sarebbe il top! Piacevolissimo Nereo.

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