IL GIORNALISTA CON GLI ANFIBI

Chi lo conosce sa che parlare con Gianfranco Salvatori per più di due minuti è praticamente impossibile. Ma se ti fai raccontare le sue missioni da inviato in Kosovo, Libano e Afghanistan, il Gianfri tira fuori storie così: “Una volta fui morso da un presunto scoiattolo radioattivo e misi in allerta un’intera base di militari argentini”. Ecco la seconda puntata di “Reportage”, la nostra piccola inchiesta sul giornalismo on the road di Piacenza.

TESTO: FILIPPO MERLI; FOTO: ARCHIVIO SALVATORI

Gianfranco Salvatori ha visto la canna di un kalashnikov da vicino. Se vuoi fare il giornalista in zone di guerra, oltre alle pallottole e ai razzi anticarro, non devi avere paura di volare. Allacci l’elmetto, metti il giubbotto antiproiettili e sali su elicotteri e mezzi corrazzati. “Pensi che qualcosa potrebbe andare storto solo per un attimo. Poi cominci a scattare fotografie”. Adesso non fare il figo, Gianfri. Correre il rischio di venire colpito da un talebano non è il massimo della vita. “Eppure è così. Il rischio c’è, ovvio. Ma l’adrenalina è superiore alla paura. Quando sei a bordo di un Lince o di un elicottero vieni preso dal paesaggio e dal lavoro dei militari. In fondo sei lì per scrivere. E allora scrivi”. Gianfranco Salvatori, ex caposervizio della Cronaca e collaboratore del Piacenza.it e di Radio Sound, è un giornalista embedded, un giornalista di campo, e ha seguito l’esercito italiano nelle missioni in Kosovo, Libano e Afghanistan. “La prima missione a cui ho partecipato – racconta alla Batusa – è stata in Italia, nel 1999, al seguito dell’artiglieria contraerea di Cremona che venne schierata sulle spiagge di Bari per difendere le nostre coste da eventuali attacchi serbi durante la guerra nel Kosovo”. La passione per la mimetica è nata lì, tra i missili puntati in mare aperto. “Nel 2008 – prosegue Gianfranco – ho partecipato a un corso per giornalisti in aree di crisi organizzato dalla Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana) e dallo Stato maggiore della Difesa, due settimane nella sede del comando operativo di Roma. Il bello venne dopo la teoria: ci fecero salire sulle navi, ci mostrarono gli aerei e ci fecero fare alcune esercitazioni legate al nostro lavoro di giornalisti, come il recupero da un elicottero col verricello, le simulazioni dei conflitti a fuoco con proiettili di vernice e il trattamento prigionieri, in cui venimmo legati, incappucciati e sbattuti per terra prima di rispondere a un finto interrogatorio”.

 UNA BIRRA NEL CENTRO DI BAGHDAD

Gianfranco, prima del corso, aveva già partecipato a una missione fuori area. Era il 2004 e salì su un aereo diretto in Kosovo. “Quella era la prima missione dei pontieri piacentini dopo la seconda guerra mondiale. Ci tornai nel 2006, sempre con lo stesso reggimento, e imparai alcune cose che mi furono utili in scenari più complessi come il Libano e l’Afghanistan. Per esempio, quando scendi da un blindato puoi pisciare solo sull’asfalto e mai in un campo per via delle mine antiuomo”. Le truppe, prima e durante la missione, t’insegnano a non allontanarti dal gruppo per nessuna ragione. “Non è che alla sera puoi uscire e andare a bere una birra nel centro di Baghdad, soprattutto se c’è pericolo di aggressioni o rapimenti. I soldati sono responsabili della tua protezione e devi rispettare delle regole. Da una parte può essere un limite, ma dall’altra, stando con loro, vedi cose che altrimenti non vedresti. Se vuoi girare per i fatti tuoi devi essere un pazzo molto curioso e avere una scorta personale, oltre ad avere alle spalle un grande network”. Nel 2009 Gianfranco parte per il Libano con una missione dell’Onu. “I libanesi – dice – sono molto simili a noi. Una faccia una razza, ti dicono quando scoprono che sei italiano. Lo stesso vale per gli afghani, con cui passai il Natale del 2011”. Gianfranco è sempre stato al seguito dei corpi piacentini, ma non si è mai limitato a raccontare solo le loro storie. “Il provincialismo ha rotto. I piacentini vanno oltre San Lazzaro e la Besurica. Nei miei servizi cerco di allargare il campo e di affrontare altri ambiti”. Le missioni dei giornalisti fuori area durano da una a due settimane. La giornata tipica dell’inviato in zone di crisi inizia alle 7 e finisce alle 23. “Stai coi militari, parli con la popolazione e coi politici del posto, soprattutto devi portare a casa il pezzo in tempi utili per essere pubblicato. Non c’è una volta in particolare in cui ho temuto per la mia pelle. Forse le cose più pericolose sono state un paio di pattugliamenti col Lince – un mezzo blindato che i soldati chiamano “San Lince” –  a cui ho preso parte in Afghanistan. Quello è l’unico posto in cui devi girare col giubbotto antiproiettili e l’elmetto in testa”.

 FUORI AREA: IL LIBRO

Gianfranco accende una paglia e ci ripensa. “Vorrei tornare in Libano. C’è tutta la questione siriana da raccontare”. Gianfri, ma chi te lo fa fare? E’ così noioso tenere il culo sulla sedie girevole di una redazione? “Se non vai, non vedi. E’ come un giornalista sportivo che segue il calcio dalla tivù e non va mai allo stadio. E poi è una passione, una specializzazione”. Dalle esperienze in Kosovo, Libano e Afghanistan è nato “Fuori Area”, il libro in via di pubblicazione che Gianfranco ha scritto per Filios editore. “Parla delle missioni dei reparti piacentini dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi. Si parte dalla guerra del Golfo del ’91, in cui vennero impegnati i Tornado del 50esimo Stormo, fino alla recente crisi della Libia. Nel libro non si parla solo di soldati, ma anche, per esempio, dei volontari piacentini della Croce Rossa impegnati negli ospedali militari del Kosovo e dell’Iraq”. Nel libro ci sono fotografie di donne in burqa e aneddoti divertenti, come quando Gianfranco mise in allerta un’intera base per il morso di uno scoiattolo. “Ero in Kosovo, nella casa di campagna di Tito, stavo mangiando asado e bevevo vino con i soldati argentini. A un certo punto presi in mano uno scoiattolo e quello mi morsicò. Una cosa da niente, ma mi portarono immediatamente in infermeria. Ci misi un po’, poi capii il motivo di tutta quella agitazione: c’era il rischio di contaminazione da uranio impoverito da quando, nel 1999, gli aerei della Nato bombardarono i carri armati serbi che stavano massacrando la popolazione kosovara. Il dottore mi fece un’iniezione. Poi disse: “Questo è un serio della verità. Ora verrà condotto nella camera di tortura e la faremo parlare”. Scoppiamo tutti a ridere”. Chi lo conosce sa che parlare per più di due minuti con Gianfranco Salvatori è praticamente impossibile. Di solito mentre parla guarda il computer, fuma una sigaretta, prende la biro, telefona, mette giù la sigaretta, fuma la biro, cambia discorso, controlla la mail. Il segreto per farsi ascoltare è intortarlo con burqa e kalashnikov.

MISSIONI IN CORNICE: LE FOTOGRAFIE DEL GIANFRI

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