TESTO: FILIPPO MERLI; FOTO: INTERNET
I sindacalisti esultano. La Federazione impiegati operai metallurgici, o Fiom, ha vinto ieri il primo ricorso contro l’Astra veicoli industriali, che si trova a Piacenza ma appartiene al Gruppo Fiat. Il giudice del lavoro Giovanni Piacciau ha stabilito che l’Astra dovrà versare alla Cgil i contributi dei lavoratori iscritti al sindacato. “E’ stato ripristinato un diritto costituzionale” ha detto il segretario provinciale della Fiom, Ivo Bussacchini. Questa mattina Libertà ha parlato di “sconfitta” del modello Fiat e nel mondo sindacale la sentenza ha portato quell’aria di gloria e di bei tempi andati.
IL MURO DI SAN LAZZARO
In una stagione come questa, la Fiom può considerare la sentenza di ieri come una vittoria storica. Ma c’è stato un tempo in cui i successi sindacali avevano un altro aspetto. Basta vedere quel che è accaduto nei capannoni della vecchia Arbos, un’industria meccanica di San lazzaro, alla fine degli anni Settanta. Il modo più semplice per farlo è cercare su Youtube uno splendido documentario del 2005 diretto da Daniele Signaroldi (trovate il link anche in coda a questo pezzo). Le cose vanno più o meno così. Il 25 settembre del 1975, la società americana White comunica ai lavoratori dell’Arbos la decisione di abbandonare l’azienda. Fissa anche la data della chiusura dei cancelli: 30 novembre dello stesso anno. “In quel periodo – ricorda il sindacallista Gianfranco Dragoni – i dipendenti erano circa un migliaio, mille persone interessate alla vita della fabbrica”. Per cercare di salvare l’azienda ci sono solo tre mesi. “Per prima cosa costuimmo un comitato che prese contatti con avvocati e dirigenti specializzati – racconta Dragoni – Volevamo dimostrare la validità della fabbrica, volevamo salvare la Arbos e i nostri posti di lavoro”. I proprietari mettono la ditta in liquidazione: non ci sono debiti, chi vuole può farsi avanti per rilevarla. “Si interessarono parecchie realtà industriali piacentine, ma nessuno diede il sentore di voler continuare a produrre mietitrebbia – dice l’operaio Pietro Carini – Per noi lavoratori l’attaccamento al prodotto era fondamentale: eravamo convinti delle nostre capacità e di quello che fabbricavamo”. I lavoratori della Arbos scendono in piazza per scioperi e manifestazioni. Portano striscioni e vessilli con la scritta “killer dell’Arbos”. Fausto Rossi, operaio, parla di vera e propria lotta per evitare il fallimento e la chiusura della ditta. “Durante il Consiglio di fabbrica i rappresentanti di ogni reparto decidevano metodi di lotta, turni di presidio all’interno e all’esterno dello stabile e la fuoriuscita di tutti i lavoratori in corteo”. Gli operai adottano qualsiasi mezzo pur di far sentire la loro voce: fanno volantinaggio davanti a scuole e chiese, bloccano la strada sul ponte di Po, occupano i binari della stazione a costo di rischiare una denuncia, portano una mietitrebbia in piazza Cavalli per mostrare ai piacentini il prodotto finale delle loro fatiche. “Si creò una vera unità sindacale che al giorno d’oggi purtroppo non c’è più”, dice Livio Boselli, ex operaio della Arbos. “Alle assemblee sindacali – racconta Daniele Libé, sindacalista – partecipavano sia operai sia impiegati, senza distinzioni. Erano tutti concordi, cosa strana per quei tempi”. Nella fabbrica c’è un muro che separa la mensa degli operai da quella degli impiegati, e quel muro viene abbattuto: si comincia a parlare di autogestione, ma alla fine i dipendenti concordano sul fatto che l’unica via d’uscita per salvare il proprio posto di lavoro è rilevare la Arbos.
LA’ DOVE C’ERA LA FABBRICA
“Un sindacato dei lavoratori che decidesse di comprare una fabbrica non si era mai sentito prima – spiega Sandro Miglioli, avvocato – Anche perché il sindacato non aveva neanche un centesimo”. I lavoratori agiscono. Viene costituita una società per azioni, la Nuova Arbos, che, dopo una lunga trattativa, rileva l’azienda dalla White: i dipendendi della fabbrica pagano con le loro liquidazioni. “L’Arbos è degli operai” titolano i giornali dell’epoca. La notizia assume una rilevanza nazionale, le principali testate italiane incaricano i loro inviati di andare Piacenza e di tornare con un pezzo sulla storia della Arbos. Alcuni imprenditori piacentini, anche grazie a un contributo pubblico che porta nelle casse della società più di quattro miliardi di lire, si fanno avanti per rilevare l’azienda. I più interessati sono i fratelli Magni, che diventano i nuovi proprietari della fabbrica. Nel frattempo gli operai, anche se per due mesi possono vantare lo stipendio dalla White, non stanno con le mani in mano: riverniciano i capannoni, ristrutturano le macchine e mettono a nuovo la fabbrica in attesa della riapertura dei cancelli, che avviene il 4 marzo 1976. Per altri sedici anni la Arbos continua a produrre mietitrebbie. Oggi la fabbrica non esiste più e nell’area dell’ex Arbos sorge il centro commerciale Porta San Lazzaro, i sindacati sono divisi e non c’è grande sintornia con il governo Monti. Per la Fiom, può essere abbastanza un successo in tribunale.
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